La malattia dalla parte del malato, semplicemente
- 16 Feb 2008 alle 09:47:00
Diario di una paziente
Tonina Facciani
I libri di Pan, 2006
pp. 192, euro 13
Tonina Facciani
I libri di Pan, 2006
pp. 192, euro 13
Consigliamo ai nostri lettori di leggere questo libro, scritto con molta semplicità. L’Autrice ha, appunto, una scrittura semplice, dalla quale talora emergono simpaticamente i tratti di locuzioni dialettali. Consente, in modo piacevole, di trasmettere e di fare capire quello che vuole dire.
Che è in fondo la funzione trasmissiva della scrittura. Ep pure per lei è qualcosa di più: perché dice di usarla per farsi compagnia, per aiutarsi a sopportare i dolori della vita, per trarre dai ricordi più dolci del passato un motivo di speranza per oggi. La scrittura insomma è uno strumento per dimenticare dove ci si trova: l’ospedale. Se si volesse usare una frase consunta, si dovrebbe dire – come abbiamo fatto altre volte in questa rubrica – che lo consigliamo perché mostra la malattia dalla parte del malato. Ma stavolta questa “parte” è più di una persona;
è una complessa umanità di “pazienti perfetti” che si raccolgono negli ospedali e si comunicano fra di loro attese, speranze, paure: non un insieme di pazienti, ma un corpo unico, corale, che rivive per il sorriso “appena accennato” di una infermiera o di un dottore che, se ci sono, fanno sopportare i tetri ambienti in cui si vive; una comunità che soffre quando una morte tocca una stanza o una camerata.
Se questi sorrisi ci sono – dice l’Autrice – fanno sentire meno soli. Ma se non ce n’è, come “nell’ospedale grande della mia città”, la vita ospedaliera è meno sopportabile: anche se dalle finestre in lontananza si vede il mare di casa. È un tessuto comunitario che vive anche dopo la dimissione perché la sofferenza ne ha unito le cellule. È una umanità che si sofferma su pensieri talora impensabili: “chissà se un chirurgo da innamorato può operarti meglio”. Mi è venuto da pensare spesso, leggendo, ai troppo pochi sorrisi che ho dedicato ai miei malati.
Che è in fondo la funzione trasmissiva della scrittura. Ep pure per lei è qualcosa di più: perché dice di usarla per farsi compagnia, per aiutarsi a sopportare i dolori della vita, per trarre dai ricordi più dolci del passato un motivo di speranza per oggi. La scrittura insomma è uno strumento per dimenticare dove ci si trova: l’ospedale. Se si volesse usare una frase consunta, si dovrebbe dire – come abbiamo fatto altre volte in questa rubrica – che lo consigliamo perché mostra la malattia dalla parte del malato. Ma stavolta questa “parte” è più di una persona;
è una complessa umanità di “pazienti perfetti” che si raccolgono negli ospedali e si comunicano fra di loro attese, speranze, paure: non un insieme di pazienti, ma un corpo unico, corale, che rivive per il sorriso “appena accennato” di una infermiera o di un dottore che, se ci sono, fanno sopportare i tetri ambienti in cui si vive; una comunità che soffre quando una morte tocca una stanza o una camerata.
Se questi sorrisi ci sono – dice l’Autrice – fanno sentire meno soli. Ma se non ce n’è, come “nell’ospedale grande della mia città”, la vita ospedaliera è meno sopportabile: anche se dalle finestre in lontananza si vede il mare di casa. È un tessuto comunitario che vive anche dopo la dimissione perché la sofferenza ne ha unito le cellule. È una umanità che si sofferma su pensieri talora impensabili: “chissà se un chirurgo da innamorato può operarti meglio”. Mi è venuto da pensare spesso, leggendo, ai troppo pochi sorrisi che ho dedicato ai miei malati.
Giancarlo Biasini